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Le prove nel processo penale

Pubblicato il da infortunistica

LE PROVE

NEL PROCESSO PENALE

Per. Gabriele Uberti

La funzione del processo penale è quello, di provare il fatto ipotizzato nell'imputazione e le prove sono gli strumenti impiegati per realizzare tale obbiettivo.

All'inizio del processo,infatti, il fatto storico addebitato all'imputato non è certo, in quanto l'accusa ne afferma l'esistenza, mentre la difesa lo nega: provare vuol dire dunque indurre nel giudice il convincimento che il fatto storico sia avvenuto in un determinato modo.

Per tale ragione non potrà fondarsi sulla conoscenza privata del giudice, bensì su elementi esterni, appunto le prove.

In tal senso, la prova è quel procedimento logico in base al quale da un fatto noto si deduce l'esistenza del fatto storico da provare e le modalità con le quali esso si è verificato (TONINI).

In base al disposto dell'art. 187 c.p.p. sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza. Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali. Se vi è costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato.

Oggetto della prova non è dunque soltanto il fatto storico cristallizzato nell'imputazione, risultando il thema probandum ben più ampio, tanto da ricomprendere:

a) i dati storici integranti la fattispecie ipotizzata nel capo di imputazione;

b) i fatti che incidono sulla punibilità;

c) i fatti che si riferiscono alla determinazione di norme processuali;

d) i fatti da cui dipende l'applicazione di norme processuali;

e) se vi è costituzione di parte civile, i fatti idonei a dimostrare l'esistenza e l'ammontare del danno.

Ciò detto, nel panorama delle prove si è soliti distinguere tra prova diretta e prova indiretta a seconda che la prova medesima abbia ad oggetto o meno un fatto attinente al thema probandum principale, quale risulta tratteggiata dall'art. 187 c.p.p.

Pertanto, è prova diretta quella che si riferisce direttamente al fatto di reato, è invece prova indiretta (o indiziaria) quella che attiene ad un fatto diverso da quello specificamente contestato all'imputato.

Come osservato dalla dottrina (LOZZI), nel caso di prova diretta il giudice dovrà compiere una sola valutazione e quindi, una volta superato il vaglio di credibilità della fonte e di attendibilità dell'elemento di prova, potrà giungere ad una affermazione positiva circa la penale responsabilità dell'imputato, mentre nel caso della prova indiziaria sarà necessaria una doppia valutazione, diretta prima di tutto a verificare l'affidabilità della prova e poi ad accertare se sia possibile o meno, facendo applicazione di una massima di esperienza o di una legge scientifica, risalire dal fatto noto al fatto ignoto con un sufficiente grado di probabilità (occorre infatti tenere presente che il fatto deve risultare provato al di là di ogni ragionevole dubbio art. 533 c.p.p.).

Sul piano normativo, la minore affidabilità della prova indiziaria è del resto confermata dall'art. 192 c.p.p., a mente del quale l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti.

Per un modello di processo di stampo prettamente accusatorio impone che siano le parti a ricercare le fonti di prova e a chiedere al giudice l'ammissione del relativo mezzo di prova. In tal senso alle parti è riconosciuto il diritto alla prova, che rappresenta un aspetto essenziale del diritto di difesa.

Tale diretto compendia essenzialmente:

  1. ricercare le fonti di prova;
  2. chiedere l'ammissione del relativo mezzo;
  3. partecipare alla sua assunzione;
  4. proporre una valutazione del risultato al momento delle conclusioni.

L'art. 190 c.1 c.p.p. prevede infatti che le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti.

Il potere di ammissione della prova compete invece al giudice che, nel suo concreto esercizio, deve attenersi ai seguenti criteri:

  1. la prova deve essere pertinente;
  2. la prova non deve essere vietata dalla legge;
  3. la prova non deve essere superflua;
  4. la prova deve essere rilevante.

Il principio dispositivo, cui mostra di ispirarsi il codice di procedura penale con l'art. 190 c.p.p. risulta tuttavia temperato dal riconoscimento di poteri di iniziativa probatoria officiosi, a carattere integrativo, esercitabili dal giudice nelle ipotesi in cui il quadro probatorio introdotto dalle parti impedisca al processo di assolvere al meglio la sua funzione di accertamento (si vedano in particolare gli artt. 422 c.1, 441 c. 5 e 507 c.p.p.).

Il diritto alla prova, come detto, ricomprende anche il diritto di partecipare all'assunzione del mezzo di prova. Ciò si coglie, essenzialmente, con riferimento alle prove dichiarative ( ad esempio la testimonianza), la cui assunzione in dibattimento avviene nelle forme dell'esame incrociato, nel corso del quale l'escussione del dichiarante è condotta e scandita dalle domande formulate dalle parti, nella sequenza dell'esame, controesame e riesame.

Occorre poi tener conto che vi sono dei fatti conosciuti dal giudice, risultando pertanto superflua l'ammissione e l'esperimento di un qualsiasi mezzo di prova: fatti notori e fatti pacifici.

Il fatto notorio appartiene al normale patrimonio di conoscenza di una determinata cerchia sociale e che può essere conosciuta nella sua distinta identità storica dal giudice senza le necessità di ulteriori verifiche in punto di prova (Siracusano) si dice, infatti, che notoria non egent probatione.

Il fatto pacifico è invece un fatto privato, che non appartiene al bagaglio conoscitivo della collettività.

Infine, il diritto alla prova si sostanzia nel diritto ad ottenere una valutazione degli elementi probatori introdotti da ciascuna parte nel processo.

La tipicità dei mezzi di prova e le prove atipiche, dispone al riguardo l'art. 189 c.p.p. quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti e non pregiudica la liberta morale della persona. Il giudice provvede all'ammissione, sentite le parti sulle modalità di assunzione.

Preferendo trasferire in capo al giudice il compito di vagliare preliminarmente, caso per caso ed in concreto, sentite le parti, l'ammissibilità di tali prove, sia sotto il profilo dell'idoneità all'accertamento che in ordine alle modalità di assunzione.

La prima condizione che deve ricorrere perché la prova atipica possa fare ingresso nel processo è che la stessa sia idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti.

Inoltre, la prova atipica non può comunque essere usata per violare libertà fondamentali, essa pertanto non deve pregiudicare la libertà morale della persona.

Il codice di procedura penale configura un processo penale che, in sintonia con i principi della Costituzione repubblicana e delle Convenzioni internazionali ratificate dallo Stato italiano, si fonda su un sistema di tipo accusatorio in virtù del quale salve limitate eccezioni la sentenza che pone fine al processo deve fondersi sulle acquisizioni probatorie scaturenti dalla dialettica paritaria tra accusa e difesa, nel rispetto delle fonti del diritto.

Il principio del contraddittorio nella formulazione della prova va inteso secondo un duplice significato, oggettivo e soggettivo: da un lato, quale metodo cognitivo di accertamento giudiziale dei fatti (art. 111 c. 4 Cost.) e, dall'altro, quale diritto dell'imputato a confrontarsi con il proprio accusatore (art. 111 c.3 Cost.).

Sotto il primo profilo contraddittorio in senso oggettivo è dunque inteso come metodo di conoscenza, ossia quale strumento processuale funzionale ad assicurare la genuinità della prova.

Il contraddittorio in senso soggettivo riconosciuto comma 3 dellart. 111 Cost., afferma che l'imputato ha la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, a tale prescrizione fa eco la seconda parte dell'art. 111 c. 4 Cost. che, introducendo un esplicito divieto probatorio, sancisce la inutilizzabilità, ai fini dell'emissione di una sentenza di condanna, delle dichiarazioni rese da chi, per liberta scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore.

Si riconosce così all'imputato il diritto a confrontarsi con il proprio accusatore si tratta di una previsione che va a collegarsi direttamente con l'art. 24 Cost. e quindi con il diritto di difesa e che risulta funzionale alla tutela dell'imputato; il principio del contraddittorio, così come enunciato in chiave soggettivistica, si atteggia dunque quale garanzia individuale.

Il principio del contraddittorio soffre tuttavia di alcune eccezioni indicate nel comma 5 dell'art. 111 Cost. la prova è utilizzabile, anche se si è formata fuori dal contraddittorio, quando l'imputato vi consente, ovvero quando la stessa non è ripetibile in dibattimento per accertata impossibilità di natura oggettiva, ovvero per effetto di provata condotta illecita.

Quando vi è consenso dell'imputato la clausola in oggetto si riferisce principalmente ai riti deflativi del dibattimento (giudizio abbreviato, patteggiamento, decreto penale di condanna). L'imputato può infatti decidere di rinunciare al contraddittorio ed al dibattimento, con un notevole risparmio di tempo ed ottenendo in cambio uno sconto di pena.

La seconda deroga riguarda l'accertata impossibilità di natura oggettiva, e fa riferimento essenzialmente ai casi di non ripetibilità della prova in dibattimento per ragioni di carattere obiettivo, ovvero indipendenti dalla volontà del dichiarante.

Ultima eccezione è prevista nell'ipotesi in cui la mancata attuazione del contraddittorio costituisca effetto di provata condotta illecita. Il legislatore in questo caso si riferisce al fenomeno intimidatorio, alla violenza, minaccia o subornazione, cui sia stato sottoposto il dichiarante in vista della sua deposizione in dibattimento, affinché il medesimo non deponga il falso.

Pertanto, qualora all'esito di un giudizio sommario il giudice ritenga provata la violenza, la minaccia o la subornazione, le precedenti dichiarazioni transiteranno nel fascicolo per il dibattimento.

La deroga del contraddittorio, allora, dovrà considerarsi soltanto apparente, che consiste nel sottoporre al giudice contributi probatori genuini ed utili della decisione, ferma ovviamente la loro valutazione in punto di attendibilità e credibilità.

Per. Gabriele Uberti

Tocco da Casauria lì 11/07/2014

Bibliografia

- Sara Farini - Compedio di Diritto Processuale Penale - Capitolo III - LE PROVE

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Incidente stradale figlio deceduto

Pubblicato il da infortunistica

Sentenza – Incidente stradale, quantificazione danno, figlio deceduto

Sentenza - Incidente stradale, quantificazione danno, figlio deceduto
Suprema Corte di Cassazione III Sezione Civile
Sentenza 14 maggio - 8 luglio 2014, n. 15491
Presidente Spirito – Relatore D’Amico

Svolgimento del processo

1. Con atto di citazione notificato il 9/11 settembre 1997, L.C.I. e C.G. convennero, innanzi al Tribunale di Caltanissetta, T.R. e la società Allsecures Assicurazioni s.p.a., chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni subiti, in proprio e quali eredi del figlio L.C.F. , deceduto in conseguenza del sinistro verificatosi in data (omissis) lungo la (…), in direzione di (omissis).
2. Resistette il T. , chiedendo farsi applicazione della presunzione di cui all'art. 2054 cc. ed eccependo anche il concorso di colpa della vittima per non avere indossato le cinture di sicurezza. Lo stesso T. avanzò domanda in garanzia nei confronti della Allsecures per mala gestio del sinistro.
Resistette anche la società di assicurazioni che chiese il rigetto delle domande attrici, contestando la dinamica dell'incidente.
Previa separazione della posizione degli intervenuti S.G. , Ca.Sa. e Ca.Ro. - prossimi congiunti ed eredi di Ca.Ca. , anch'egli terzo trasportato sull'autovettura del T. e deceduto a seguito dello scontro, il Giudice monocratico del Tribunale, con sentenza 12.11./19.11.2005, dichiarò che il sinistro si era verificato per colpa esclusiva di T.R. , condannando quest'ultimo, in solido con la società assicurativa, al pagamento, in favore degli attori, della somma di Euro 500.000, 00 a titolo di danno biologico iure hereditatis, ed Euro 125.000,00 a titolo di danno morale iure proprio.
3. Il Giudice, basandosi sui risultati dei rilievi eseguiti dai Carabinieri, nonché sulla c.t.u. espletata nell'ambito del procedimento penale svoltosi a carico di T.R. , ritenne provato che quest'ultimo, a causa dell'elevata velocità e del fondo viscido per la pioggia, aveva invaso la corsia opposta, mentre nessun addebito poteva ascriversi al conducente del veicolo antagonista.
4. Per la riforma della sentenza ha proposto appello la AXA Assicurazioni S.p.A., subentrata per incorporazione alla Allsecures Assicurazioni.
Hanno resistito gli appellati, tutti con appello incidentale.
5. La Corte d'appello di Caltanissetta, in parziale riforma dell'impugnata sentenza, ha condannato in solido la suddetta Axa Assicurazioni s.p.a. e T.R. al pagamento, in favore di L.C.I. e C.R. , della complessiva somma di Euro 348.928,00 pari ad Euro 174.464,00 ciascuno, oltre gli interessi legali, da calcolarsi - previa devalutazione ai valori del 9 aprile 1996, sulle somme rivalutate anno per anno sino alla data di pubblicazione della medesima sentenza ed oltre gli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza in oggetto al soddisfo.
6. Propongono ricorso per cassazione L.C.I. e C.G. che presenta memoria.
Resiste con controricorso la Axa Assicurazioni s.p.a..

Motivi della decisione

7. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano “violazione e falsa applicazione dell'art. 2043, 2056 e 2059 cod. civ. in riferimento all'art. 360 n. 3”.
Sostengono i ricorrenti che la Corte di merito, pur riconoscendo i principi di diritto e le elaborazioni giurisprudenziali relative alla fattispecie, ritiene di inserire un proprio indice di adeguamento alle circostanze del caso concreto.
Ad avviso di L.C. e C. la morte, quale perdita della vita, è fuori dal danno biologico per entità ed intensità, trovando causa nelle lesioni che esitano nella morte stessa. In altri termini, nel danno biologico terminale la capacità recuperatoria o, quantomeno, stabilizzatrice della salute, risulta irreversibilmente compromessa in quanto degrada verso la morte.
Il danno biologico, derivante da lesione tanto grave da condurre alla morte, è soggetto, nella misura liquidatoria tabellare adottata dalla Corte di merito, non a decremento, ma a valutazione oggettiva con valutazione ad incremento.
7.1. Il motivo è infondato.
Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato per il periodo di tempo indicato, e il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi "iure hereditatis"; in questo caso, l'ammontare del danno biologico terminale sarà commisurato soltanto all'inabilità temporanea, e tuttavia la sua liquidazione dovrà tenere conto, nell'adeguare l'ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte (Cass., 30 ottobre 2009, n. 23053; Cass., 23 febbraio 2004, n. 3549).
La Corte d'appello, dopo aver ritenuto che il primo giudice ha errato nella quantificazione del danno biologico da postumi permanenti, commisurandola a tutta la durata della vita, ha provveduto a ricalcolare tale danno prendendo in considerazione il danno biologico da inabilità temporanea con i dovuti correttivi di tipo equitativo, in considerazione dell'entità massima di lesione alla salute.
L'impugnata sentenza ha quindi ritenuto che, in considerazione dell'elevatissimo grado della lesione alla salute patito, in relazione anche alla giovanissima età della vittima, la liquidazione del relativo danno da inabilità temporanea debba trovare serio ristoro e possa congruamente quantificarsi in Euro 50.000,00, ai valori attuali, con conseguente diritto degli eredi a conseguire tale somma iure hereditatis.
La statuizione di cui sopra, contrariamente a quanto deducono i ricorrenti, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale l'ammontare del danno biologico, che gli eredi del defunto richiedono iure successionis, va calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva.
Ne consegue che la sentenza impugnata è corretta, anche perché il giudice ha tenuto conto del caso concreto.
8. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano “violazione e falsa applicazione dell'art. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 cod. civ. in riferimento all'art. 360 n. 5, in ragione della mancata liquidazione del danno biologico iure proprio, nonché alla mancata liquidazione del danno edonistico ed errata quantificazione del danno morale”.
Ad avviso dei ricorrenti andava loro riconosciuto un diritto al risarcimento, autonomo e distinto, rispetto al pretium doloris, trattandosi di lesioni di diritti della persona costituzionalmente protetti.
Non vi è dubbio, proseguono i ricorrenti, che essi hanno subito, in proprio, una lesione all'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale e consistente nelle ripercussioni negative, di carattere non patrimoniale, che si ripercuote per l'intera durata della vita residua del soggetto leso.
A loro avviso il danno conseguente all'interruzione traumatica del rapporto parentale, per la morte improvvisa di uno stretto congiunto, si configura come diritto concreto al risarcimento agli stessi familiari - iure proprio - di tutti i danni non patrimoniali, comprensivi non delle sole sofferenze fisiche o psichiche, ma anche dei c.d. danni esistenziali consistenti nell'irrimediabile, oggettiva e peggiorativa alterazione degli assetti affettivi e relazionali all'interno della famiglia, quale derivante dalla morte.
9. Il motivo è infondato.
Il danno alla salute subito dai prossimi congiunti della vittima di un incidente stradale costituisce danno non patrimoniale, risarcibile iure proprio nei confronti di tali soggetti ove sia adeguatamente provato il nesso causale tra la menomazione dello stato di salute dell'attore ed il fatto illecito (Cass., 23 febbraio 2004, n. 3549).
Emerge invece dall'impugnata sentenza che la stessa è del tutto sfornita di prova e non può pertanto trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno biologico iure proprio per la perdita del figlio, solo genericamente dedotto, senza nemmeno l'allegazione di conseguenze di carattere patologico o la specificazione di uno stato di malattia.
Quanto al c.d. "danno edonistico", per la perdita del rapporto parentale, tale danno deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale iure proprio.
Il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. preclude infatti la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno esistenziale, ecc.), che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie, fermo restando, però, l'obbligo del giudice di tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso, tramite l'incremento della somma dovuta a titolo risarcitorio, in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass., 23 settembre 2013, n. 21716).
La Corte d'appello ha provveduto al risarcimento del danno morale considerando anche lo stretto vincolo parentale e il grandissimo dolore per la perdita dell'unico figlio e per la conseguente, estrema intensità della sofferenza subita.
Così decidendo la sentenza impugnata si è attenuta ai principi di questa Corte secondo la quale la liquidazione del danno morale iure proprio, sofferto per il decesso di un familiare, causato da incidente stradale, sfugge necessariamente ad una previa valutazione analitica e resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito, come tali non sindacabili in sede di legittimità ove, come nel caso in esame, adeguatamente motivati.
10. In conclusione, tutte le considerazioni che precedono inducono a ritenere che la Corte abbia correttamente deciso e che di conseguenza il ricorso debba essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 5.500,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Per. Gabriele Uberti


Fonte:
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Accertamento tecnico preventivo

Pubblicato il da infortunistica

Accertamento tecnico preventivo e la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite.

I procedimenti d'istruzione preventiva sono preposti alla garanzia della proficuità di determinate attività istruttorie le quale, se non espletate con anticipo rispetto ai tempi previsti per l'ordinario svolgimento del processo, sarebbero destinate a vanificarsi, precludendo così irrimediabilmente la prova alla parte che intende far valere un proprio diritto in giudizio.

Per tale ragione si dispone di una serie di istituti volti, appunto, a precostituire la prova a vantaggio di chi potrebbe non poterne più fruire al momento dello svolgimento dell'istruttoria processuale.

L'accertamento tecnico preventivo ( a.t.p.) è disciplinato all'art. 696 c.p.c., ove è testualmente disposto che, chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato dei luoghi o la qualità o la condizione di cose, può chiedere, a noma degli articoli 692 e seguenti, che sia disposto un accertamento tecnico.

La medesima citata legge di riforma ha anche inserito il nuovo comma dell'art. 696 c.p.c. ove viene altresì precisata la modalità di svolgimento dell'a.t.p il quale può comprendere anche valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi all'oggetto della verifica.

La consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, invece, regolata dal nuovo art. 696-bis c.p.c. ove ne è prevista l'esperibilità anche al fuori delle condizioni di cui al comma primo dell'art. 696 c.p.c. ai fini dell'accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazione contrattuali o da fatto illecito.

Tale dizione ha fatto sorgere subito dubbi tra gli interpreti in merito all'estensione delle facoltà attribuibili al consulente, atteso che questi a tenore della suddetta norma deve espletare una perizia tecnica volta all'accertamento e alla determinazione dei relativi crediti.

Il rischio più volte paventato dagli interpreti anche con riferimento all'a.t.p. di cui art. 696 c.p.c. è dato dalla prevedibilità che il conferimento di poteri valutativi e accertativi a professionisti di varie specialità possa entrare in collisione con una serie di principi processuali di livello costituzionali.

Senza entrare nel merito, la soluzione del tribunale milanese 17 aprile 2007, in Giur.it, 2007,2268, n. CONTE, sembrerebbe svalutare le potenzialità dell'istituto de quo, in quanto esso è stato predisposto dal legislatore con il preciso obiettivo di fornire una modalità di risoluzione delle controversie con fini eminentemente deflattivi, e in quanto il conferimento di poteri valutativi al CTU costituisce, senz'altro, un valido mezzo per permettere alle parti di risolvere la lite mediante una conciliazione non solo agevolata, ma anche suggerita da un soggetto nella materia oggetto della lite.

Contrariamente a quanto osservato dal Tribunale di Pavia, 14 luglio 2008, v. sezione "giurisprudenza", che manifesta una certa cautela nel permettere al consulente la soluzione di questioni giuridiche complesse.

Il conciliatore propone la soluzione che appare conforme al diritto, e valuta la fondatezza delle richieste delle parti, rendendole consapevoli dei rischi che esse correrebbero affrontando una causa ordinaria di cognizione.

Le conclusioni raggiunte dalla menzionata giurisprudenza di merito, e cioè di limitare l'a.t.p. ex art. 696 - bis c.p.c. alla sola determinazione della misura dell'obbligazione risarcitoria, e non anche al suo accertamento, non tenga nel dovuto conto le concrete finalità cui mira questo nuovo istituto, le cui potenzialità risolutive delle liti necessitano di essere incrementate mediante l'ausilio di soggetti che, oltre ad avere competenze specifiche nella materia della lite oggetto dell'a.t.p., abbiano altresì la necessaria preparazione per svolgere l'attività conciliativa prevista dalla legge.

Fonte: Borsa-1 File PDF

Per. Gabriele Uberti

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gatto ucciso con carabina

Pubblicato il da infortunistica

Il giudice Damiano Spera, della decima sezione civile del Tribunale di Milano, ha risolto una causa relativa al risarcimento del danno subito dai padroni di un gatto, ucciso a colpi di carabina ad aria compressa da un vicino di casa.

I danneggiati, dopo aver affrontato 12 mila euro di spese mediche per curare la loro piccola gattina Zaira, morta dopo 6 mesi per le ferite, avevano chiesto la stessa cifra all’aggressore.

Ma il magistrato, ponendo alla base della pronuncia la circostanza che l’animale domestico fosse privo di pedigree, ne ha sentenziato la “mancanza di valore economico”.

Alla famiglia, dunque, è stato riconosciuto un risarcimento di soli 8 mila euro, la metà dei quali dovuti per il danno morale patito per il decesso.

Discutibile l’argomentazione posta a sostegno del provvedimento: “Non pone in essere una condotta conforme ai delineati principi di diligenza e correttezza chi affronti spese veterinarie addirittura superiori al possibile risarcimento del danno compensativo della perdita del rapporto con l’animale”.

Insomma, i padroni hanno speso troppi soldi, rispetto a quanto valesse, in termini di vile denaro, la malcapitata gattina.

Per. Gabriele Uberti

Fonte: http://www.theblazonedpress.it/website/2014/07/03/milano-uccise-un-gatto-con-la-carabina-mini-risarcimento-ai-proprietari/150420

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